Intellighenzia 2013
Credo che tutti noi ci siamo posti prima o poi l’interrogativo sulla definizione dell’intellettuale: chi è l’intellettuale? È colui che esercita una professione attinente alla cultura? O che si dedica alla produzione letteraria e artistica? O chi esercita l’intelletto, grado conoscitivo superiore alla sensibilità e all’esperienza? O, più semplicemente, una persona colta, amante degli studi e del sapere, col gusto del bello? Ad impedire che il dibattito si protragga altre migliaia d'anni, dà una risposta definitiva sulla vexata questio il filosofo, pubblicista e ricercatore universitario Paolo Flores d’Arcais sull'ultimo numero di Micromega, firmando un articolo dal titolo L’intellettuale e l’impegno, in cui elenca i seguenti requisiti dei quali non puo' mancare l'intellettuale degno di questo nome.
1-L’intellettuale non può accontentarsi di far bene il proprio lavoro, come “scrivere un libro o girare un film, costruire un grattacielo o dirigere un’orchestra” al meglio delle sue possibilità. L’intellettuale in primo luogo deve essere ‘impegnato’. In che cosa? Nel migliorarsi? Nel farsi comprendere? No. Deve essere impegnato nel perseguire “la causa della democrazia radicale”. E deve conseguirlo, questo ossimoro, “con ostinata prassi critica”. Senza l’ostinata prassi critica, infatti, camminerebbe “sotto un cielo stellato orbo di luce”. Basta, tuona Flores d'Arcais, col disimpegno o “l'impegno in carrozza” ancora misteriosamente consentiti dalla cultura italiana!Chi non si impegna è un chierico che tradisce.
Fuori subito dalla congrega, dunque, Platone, che come si sa considerava la democrazia (non sappiamo se radicale o meno) la peggior forma di governo, in quanto gestita da incompetenti, fondata sull’interesse personale e destinata a degenerare nella tirannide.
2-A questo punto si potrebbe coerentemente immaginare un intellettuale alla Pasolini- come si sa, estremamente critico nei confronti della cultura élitaria dalla quale restava escluso quel proletariato appena uscito dalla povertà e dall’ignoranza-. Intellettuali potrebbero essere un sindacalista, un caporeparto FIAT particolarmente illuminati. Eh, no. Essere intellettuali “è un mestiere dal quale si ricavano emolumenti superiori a quelli di un minatore, di un travet o di un operatore di call center” .L’intellettuale appartiene all’élite dell’ aristocrazia dello spirito; è socialmente un privilegiato; e tale prestigio è “garanzia di non assoggettamento”. L’ex girotondino Flores d’Arcais, girotondando fra universalismo concreto, etica futile, hybris della libertà, Realpolitik, Verblendungzusammenhang (“contesto di accecamento'”dal quale non pare essere esente) e post-post-moderno, sostiene con prassi ostinata l'essenzialità della gerarchia della cultura, definendo “falso modesto” l’intellettuale che vorrebbe riconoscersi nella ‘massa’.
3-Ma è alla fine, con l'ultima condicio sine qua non, che Flores d’Arcais riserva il suo boccone più ghiotto, benchè non imprevedibile: “l’intellettuale di destra è una contraddizione in termini”. E qualora per sbaglio esistesse, l'intellettuale di destra o di centro sarebbe “officiante della servitù volontaria”, “funzionario del conformismo”;insomma, “personale di servizio”. Dunque: engagé dedito alla causa della democrazia radicale- privilegiato sociale- di sinistra, ecco profilarsi qualcosa di nuovo, anzi di antico: l'immagine del buon vecchio gauche caviar. Post-post-moderno. Quello che, dopo aver scritto l'ultimo elzeviro di denuncia sociale su un quotidiano nazionale, o aver ottenuto l'autorizzazione ad erigere qualche orrore architettonico dalla scuola del brutto imperante nei Comuni, finalmente si rilassa fra i suoi pari, e tormentandosi il cachemire o la collana di perle si lamenta delle ingiustizie di questa società, da eliminare in nome della democrazia radicale. Da cinquant'anni ormai questa figura riappare, rinfrescata ogni tanto da nuovi dettagli: il SUV per portare i figli nelle scuole private per esempio; il corso da sommelier e cake-design in omaggio alla cultura materiale; il Fontana e il poverista Merz sostituiti da Ferri o Cattelan, impassibili testimoni dei crucci salottieri di Capalbio. L’antiimpegno “bordeggia fascismo e razzismo”, aggiunge Flores D’Arcais, e “l'impegno intellettuale suscita ostilità perchè è sempre di sinistra e non può essere che di sinistra”. Peccato che la storia dimostri quanto questa ostilità sia stata utilizzata proprio da prese di posizione democratico-radicali, che hanno contato tante vittime illustri. Un esempio su tutti, quello che considero il mio Maître à penser: Elémire Zolla, il quale, con la sua mente illuminata, lasciò un segno profondo nella cultura del Millenovecento e nel pensiero di chi gli si accostò.
Filosofo, storico dei miti e delle religioni, pensatore di sterminata cultura, fu autore di testi come Volgarità e dolore e Uscite dal mondo; traduttore di Melville, critico tra gli altri di Thomas Mann, Kafka e Joyce, Zolla ospitò sulla sua rivista Conoscenza religiosa da Eugenio Montale a Jorge Luis Borges. Nonostante la fama acquisita da giovanissimo, grazie al premio Strega vinto a 30 anni, Zolla fu emarginato dagli ‘intellettuali’ di fine anni Cinquanta poiché con L’eclissi dell’intellettuale aveva preso atto della fine delle stagioni dell’impegno, considerato un obbligo fin da allora. Zolla, bollato come intellettuale di destra, venne da allora guardato con sospetto e nuovamente messo al bando nel 1971 per Che cos’è la tradizione, in cui prendeva posizione contro“ogni forma di estremismo”. Il suo spirito libero e anticonformista rimase impenetrabile alle seduzioni di ogni tipo di appartenenza, dai partiti ai salotti, e a ogni tentativo di classificazione politica. Zolla continuò a ripetere fino alla morte che la distinzione fra destra e sinistra non serviva a nulla “se non alla contesa politica più bassa”. Non si poteva neppure riconoscere nell' obbligo di Flores D'Arcais “di essere innanzi tutto cittadino”: di estrazione e cultura cosmopolita, si rassegnò ad essere casualmente italiano- un fatto che, come tutte le fatalità, accettava con distacco-. E alle accuse di “servo volontario” e “chierico traditore” con cui lo avrebbe bollato un Flores D’Arcais per il suo disengagement, Zolla avrebbe reagito com'era solito fare: con quel suo sorriso ironico, lontanissimo.
Questa restrittiva definizione dell’ intellettuale di Flores D’Arcais, noto come autore de Il piccolo sinistrese illustrato, pare estromettere dalla partita degli intellettuali, oltre al solito Céline (riguardo al quale, bontà sua, Flores D’Arcais ammette che “pare abbia scritto ammirevoli romanzi” –lasciando nel contempo trapelare orgogliosamente di averne evitato la lettura)- anche Jorge Luis Borges, riconosciuto fra i massimi scrittori del 1900. Il grande argentino, autore di Aleph e Finzioni, denominato da tutti El Viejo, il Maestro, annotò, riferendosi a Chesterton, a Lugones, a Rudyard Kiplig e a Walt Whitman che “la valutazione delle opere deve prescindere da quella delle loro opinioni politiche”, definendo queste ultime “quanto di meno importante e di più superficiale possa esserci”. In una memorabile intervista di Alberto Arbasino, Borges definì anzi la politica “il grande nemico della letteratura, di qualunque segno”. Ammettendo di aver aderito a un partito conversatore, dichiarò di essersene ritirato “perchè era già d’accordo con opinioni diverse altrui”. Borges era convinto che fosse ridicolo appartenere a un partito politico, e poiché i comunisti lo reputavano fascista e i fascisti comunista si definiva, semplicemente, un vecchio individualista. Queste asserzioni scettiche di Zolla e Borges sul ruolo della politica dovrebbero suonare consolatorie per il direttore di Micromega, dati i suoi pervicaci e non fortunati tentativi di far politica su vari fronti, dei quali taccio per stile, sicura che saranno tanto noti quanto la sua produzione letteraria.
Come si sa, Borges, pur favorito d’obbligo ogni anno, fin dagli anni Cinquanta, al premio Nobel, non lo ottenne mai per ragioni ideologiche. Il premio negato al grande poeta cieco, il quale aveva sedotto perfino l'ostile Garcìa Marquez, era venerato da lettori di tutto il mondo -da tutta una città che lo accompagnava con affetto rumoroso nelle sue uscite-, venne assegnato in seguito a Dario Fo, al quale, non a caso, viene dedicato un articolo successivo nelle pagine di Micromega.
Per allontanare accuse di nostalgia alla sua definizione di intellettualità come aristocrazia dello spirito, Flores d’Arcais non trova nulla di meglio che ricordare quanta attenzione abbia prestato Micromega a un argomento come il cibo, dedicandogli addirittura due volumi. Prende così corpo la provocazione dell’amico Franz Krauspenhaar: il prossimo Nobel verrà assegnato a un cuoco (di ostinata prassi critica, ça va).
Mi guardo dal proporre un’altra definizione di intellettuale. Ma è sicuro che ammirando un bel dipinto; leggendo Céline, Ezra Pound, T.S. Eliot, Proust, G.B. Shaw, Thomas Mann, certe pagine di Arbasino; seguendo Zolla nelle vertiginose scalate di pensiero che impone; addentrandomi nelle splendide cattedrali di biblioteche, specchi e finzioni di Borges; ascoltando l'arte commentata da Vittorio Sgarbi, o rivedendo una piéce di Carmelo Bene, l’ultima cosa a cui penso è quanto e come costoro fossero, o siano, engagé. Penso invece alla luce che mi infondono. E di questa non trovo traccia nei "Bertoncelli e preti", nei mille piccoli maestri che da cinquant' anni, come cantava Jannacci, “ti spiegano le tue idee senza fartele capire”, impartendoci contestabili diktat sulla collocazione dell'intellettuale; quando l'intellettualità, qualora esista, sta appunto nella testa dell’intellettuale. E non nella loro.