Tremila trapianti di fegato alle Molinette
Intervista al prof. Mauro Salizzoni
Professore,ha sempre desiderato interessarsi di questo campo specifico della Chirurgia? Come è diventato 'Salizzoni'”?
Francamente, ho cominciato ad interessarmi ai trapianti in modo abbastanza casuale.
Certamente volevo diventare chirurgo da ragazzo- ho anzi l'impressione che si nasca, chirurghi- ma dei trapianti noi, giovani studenti degli anni Cinquanta, avevamo solo una conoscenza teorica;ci parevano ipotesi quasi avveniristiche, anche se ovviamente ci colpivano le notizie dei primi successi in questo campo, come il trapianto al cuore operato a Città del Capo da Christian Barnard nel1967, che passò alla storia.
Ho iniziato la mia professione nella chirurgia toraco-polmonare, proprio nello spazio fisico in cui stiamo parlando, nell'allora reparto di Chirurgia, dove da ragazzo ebbi l'onore di operare come 'terzo' con i grandi Biancalana e Paletto, e la fortuna di conoscere uno dei migliori chirurghi toraco-polmonari che abbia incontrato nella mia vita, il professor Borasio, che mi insegnò molto. La chirurgia toraco-polmonare comprendeva quella esofagea, giudicata a ragione fra le più complesse , per cui chi riusciva ad eseguirla bene poteva essere considerato a pieno titolo un buon chirurgo.
In questo ambito avvenne un fenomeno piuttosto curioso, anche se logico, analizzandolo a posteriori. Chi si interessava di chirurgia all'esofago interveniva anche sulle emorragie gastroesofagee dovute all'ipertensione portale, che provoca le varici esofagee.
I chirurghi dell'esofago si sono quindi vieppiù interessati al fegato, comprendendo che il gonfiore e la rottura di quelle vene erano dovuti al fegato cirrotico.
Andai all'estero: a Parigi-Colombes per un anno, presso la Clinica Chirurgica diretta dal Prof. J.N. Maillard; e completato questo percorso mi convinsi ad effettuare il passaggio dalla chirurgia toraco-polmonare a quella epatica, ritenuta a ragione pesante e difficile.
Per specializzarmi nelle resezioni epatiche, partii per il VietNam ,che vantava in questo campo una grande scuola, grazie al chirurgo Nguyen Duong Quang, il quale, grazie alle sue straordinarie conoscenze anatomiche, riusciva a portare a termine in pochi minuti e con facilità interventi che a Parigi o in America richiedevano ore.
Mi dedicai all'epatectomia parenchimale, e, non appena negli anni Ottanta iniziarono a 'decollare' i trapianti al fegato, grazie alla diffusione nella pratica clinica della ciclosporina come nuovo farmaco immunosoppressore, decisi di dedicarmi completamente a questo tipo di chirurgia, e, appoggiato dalla mia scuola torinese,andai a specializzarmi in trapianti di fegato non in America, ma in un Paese Europeo più vicino al nostro anche per cultura e mentalità:lavorai infatti a Bruxelles, nell'équipe di trapianto epaticodiretta dal prof. Otte, come responsabile del programma adulti, e vi rimasi per quattro anni, fino al 1989.
Si sa che il fegato presiede a numerose funzioni. In quali casi si decide di procedere al suo trapianto, anziché alla chirurgia resettiva?
Le lezioni sulle indicazioni al trapianto rivolte agli studenti non prendono mai meno di due o tre ore. Riassumendo, però, si può dire che si procede al trapianto quando il fegato ha esaurito le sue risorse, è 'a fine corsa', e quindi ci si aspetta che non possa esercitare le sue funzioni per più di un anno- un anno e mezzo.Oppure quando al suo interno si siano formati tumori epatocellulari, ma non così sviluppati da compromettere il post-operatorio con possibili metastasi. Si ricorre al trapianto anche in caso di patologie metaboliche che compromettono non solo le funzioni del fegato, ma anche quelle di altri organi. Esistono infatti malattie renali che traggono origine da un malfunzionamento del fegato, a causa del quale si accumulano sostanze nocive -come gli amiloidi-(sostanze di natura proteica che si depositano nei tessuti come conseguenza di gravi malattie croniche, N.d.R); in questo caso sarebbe inutile trapiantare il rene senza trapiantare anche il fegato, perchè la patologia permarrebbe nel rene rimasto,impedendogli di funzionare.
Il fegato si può trapiantare anche a sezioni?
Certamente sì, e ciò vale soprattuto nei bambini, a causa della loro massa fisica. Calcolando che il fegato di un adulto pesa circa un kg e mezzo, non lo si potrebbe certamente trapiantare in un bambino di 3 o4 kg. Si è così sviluppata la tecnica dello split liver, con la quale viene utilizzato solo il lobo sinistro - la sezione più piccola del fegato- per i riceventi di peso modesto, prelevandola in genere dal padre o dalla madre: ciò non comporta nessun rischio perla salute dei donatori.
Può succedere anche che sia il figlio a donare ai genitori?
Si, ma tendiamo ad evitarlo: non solo per una questione etica, ma anche perchè ci troviamo in una situazione, se non ideale, certamente fortunata nel campo delle donazioni, per cui in questo caso preferiamo ricorrere ad estranei alla famiglia..
Il trapianto nei bambini presenta maggiori difficoltà rispetto a quello sugli adulti?
In un Centro come questo, che si occupa abitualmente di pazienti di ogni età, non si presentano obiettivamente maggiori difficoltà, se non l'hanidcap del quale le parlavo prima, relativo alla massa fisica piu ridotta.
Qualè il tempo massimo che può trascorrere fra l'espianto di un fegato e il suo trapianto?
In genere il tempo massimo di ischemia non deve superare le 8 ore; ma in casi di prelievo a distanza può raggiungere le 12 ore. Questo dipende dalla qualità dell'organo trapiantato: se il fegato è di un donatore giovane, può tollerare tempi più lunghi di quello, benchè perfettamente funzionante, di una persona anziana.
Come si è modificata nel tempo la percentuale di sopravvivenza ai trapianti?
In modo costantemente positivo, tant'è che la percentuale ad oggi è di circa 7-8 punti superiore rispetto a quella degli anni Novanta, e si attesta a più dell'80% a distanza di dieci anni dall'intervento.
Si deve soprattutto riflettere sul fatto che non vengono sottoposti a trapianto solo pazienti ventenni o trentenni, ma anche sessantacinquenni che, come dimostra la nostra esperienza, possono raggiungere i 90 anni e quindi conservano una normale aspettativa di vita.
Le cause di morte sono da imputare in questi casi a quelle tipiche dell'età avanzata, e non alle conseguenze del trapianto.
Quali criteri vengono osservati i per inserire i pazienti nella lista d'attesa?
Seguiamo particolarmente il parametro dello score di MELD (Model ForEnd-Stage Liver Disease)
:un calcolo logaritmico eseguito dal PC che si basa su 3 parametri:bilirubina, creatinina e INR ((International Normalized Ratio,Rapporto Internazionale Normalizzato: una particolare metodica di misurazione del tempo di protrombina, N.d.R. ).Se il risultato è superiore ai 15 punti, ciò significa che ilfegato di quel paziente non potrà funzionare per più di un anno e mezzo.
Per entrare in lista d'attesa il paziente deve quindi riportare un alto punteggio di MELD, o essere affetto da un tumore non resecabile, oppure soffrire di quelle malattie metaboliche di cui le parlavo prima, o ancora aver riportato traumi epatici irreparabili, ai quali potrà sopravvivere solo con un nuovo fegato.
Come reagiscono i pazienti in lista d'attesa quando vengono chiamati per il trapianto?
Ho sempre pensato che occorrerebbe un registratore… Nel periodo dei primi 600 interventi non esisteva ancora il coordinamento, per cui facevo tutto da solo: chiamavo il paziente, organizzavo l'ambulanza...Da allora la reazione del paziente non è cambiata:parlare di felicità è limitativo.
C'èanche qualcuno che si fa prendere dai dubbi, dalla paura, ma la percentuale di questi è davvero trascurabile, rispetto a quanti accolgono la notizia con gioia e sollievo.
Sarà certo alcorrente che su di lei è fiorita una vasta aneddotica. Si dice peresempio che lei sia fatto di ferro e che non avverta il cosiddettoburn out nonostante le lunghe ore di sala operatoria...
No, mi creda, non è cosi. Occorre intendersi sul termine di burn out. Questo si verifica quando si viene troppo coinvolti a livello emotivo nelle sorti e nei problemi dei pazienti. Non è facile mantenere un minimo di distacco, soprattutto quando si ha a che fare coi bambini. Non sarebbe nemmeno umano, d'altronde, non rimanerne toccati. E a volte la tensione si accumula in modo davvero pesante. E' faticoso, ma se si ha da fare, si fa.
Forse l'aiuta a scaricare la tensione la corsa, la sua grande passione?
Sì, ho sempre praticato attività sportiva. Correre mi permette di staccare la spina; e correndo mi vengono anche nuove idee sui casi dei miei pazienti… La corsa mi è utile anche per mantenere una costanza, una disciplina, perché la resistenza fisica è indispensabile nel mio mestiere, del quale inevitabilmente si avverte di più la fatica, col passare del tempo.
E' per questo che ci sono ancora così poche donne chirurgo?
Si, certo; questo tipo particolare di interventi richiede molte ore, e il problema non sta nella fatica psicologica richiesta dalla sala operatoria, che le donne sono perfettamente in grado di fronteggiare,ma nell'handicap obiettivo della fatica fisica. Le cose però stanno cambiando, ultimamente, e ci sono chirurghe non solo fra le specializzande, ma anche nell'organico. Si tratta, soprattutto,dell'evoluzione di un fenomeno culturale
Una volta il medico aveva sempre ragione. In questi anni, invece, si stanno moltiplicando in modo esponenziale le cause di responsabilità.Sono i medici a sbagliare di più o è cambiata la coscienza sociale?
Se ripenso alla mia carriera ultra quarantennale, credo proprio di poter dire che la percentuale di errori adesso si è molto ridotta.Si sbaglia di meno grazie ai nuovi farmaci, ai progressi tecnologici,al fatto che si lavori ormai esclusivamente in équipe. Invece la percezione sociale è cambiata profondamente, e non in meglio. E' essenziale stabilire un buon rapporto coi pazienti e coi loro parenti. Occorre mantenere con loro il dialogo; spiegare sempre che cosa si fa e perché; anche l'errore, caso mai questo si verificasse.Solo in questo modo l'errore può essere compreso e accettato e possono essere evitati i tentativi di rivalsa.
Ci vuole raccontare il caso di un paziente che l'abbia particolarmente colpita dal punto di vista professionale e umano?
Sarebbero moltissimi, ma le racconto l'ultimo caso, davvero emblematico, che mi ha coinvolto profondamente. Mi è capitato qualche mese fa di ri-trapiantare un ragazzo ventottenne che era stato uno dei miei primi trapiantati pediatrici a Bruxelles 27 anni fa. Il fegato era cirrotico, perchè il giovane paziente non aveva seguit ocorrettamente la terapia, come spesso accade fra i ragazzi. Ebbene, ritrovarmi di fronte un giovane uomo che avevo operato tanti anni fa, quando era un...affarino di pochi Kg, mi ha colpito e commosso.
Qual è la sua opinione rispetto ai tentativi di costruire organi (cuore,ma anche fegato) con stampanti 3 D a partire da cellule staminali del paziente?
Penso che con l'utilizzo delle staminali che divengono poi epatiche sia possibile ridare alcune delle funzioni che il fegato ha perduto, ma l'ipotesi di ricostruire interamente un organo mi pare avveniristica. Anche se,ovviamente, 'mai dire mai'.
Sono note le indicazioni fornite dagli oncologi allo scopo di prevenire i tumori. Quali consigli si sente di dare per prevenire le patologie al fegato?
Non bucarsi, controllare la sicurezza nelle trasfusioni, evitare l'abuso di alcool, seguire un'alimentazione corretta evitando il sovrappeso, che produce danni non indifferenti. E' ovvio che si può essere colpiti da un virus senza rendersene conto, ma in ogni caso un modello di vita sano non può che giovare alla salute.
A proposito di virus, si può ricorrere talvolta al trapianto di un fegato affetto da epatite?
Sì, già anni fa trapiantavamo il fegato di donatori affetti da epatite C, nei quali però il virus non aveva creato danni, in pazienti parimenti HCV positivi, nei quali si prevedeva che il virus avrebbe fatto la recidiva, contando soprattutto sul Sofosbuvir, un farmaco di straordinaria efficacia nel trattamento di questa patologia, che riusciva a debellare in pochi mesi.
Il ragionamento iniziale era 'perso per perso...', che in realtà, alla luce dei fatti, era un 'guadagnato per guadagnato', se si riusciva ad individuare la combinazione giusta del genotipo. Nel virus dell'epatite C, infatti, ce ne sono 4: alcuni più sensibili alla terapia tradizionale con l'interferone, altri meno. Quindi, se si trapiantava un fegato affetto da HCV col genotipo giusto, lo si poteva poi trattare con l'interferone. I risultati, in questi casi, sono sempre stati sovrapponibili a quelli dei donatori non affettidal virus: in altre parole, chi ha ricevuto un fegato HCV positivo,non è stato penalizzato.
Ogni anno, durante le feste natalizie, appare puntualmente sulla Stampa un articolo che descrive l'ennesimo record di trapianti compiuto dal prof. Salizzoni. Come mai questo picco proprio nel periodo di Natale e Capodanno? Si tratta di una casualità reiterata nel tempo?
E' vero, una casualità reiterata. Non per merito nostro, però, ma della rete di donazione. Il Piemonte, infatti, con la Toscana, è la Regione più all'avanguardia nell'osservazione delle morti cerebrali. Questo significa che gli ospedali e le rianimazioni anche periferiche funzionano a dovere. Individuare la morte cerebrale e portare a termine la donazione degli organi non è semplice: si tratta diprocedure straordinariamente complesse, che richiedono impegno e competenza, ma quando si ha un picco di donazioni non possiamo sottrarci. Quindi, il merito di questi record è altrui, non nostro.
Col trapianto del fegato, lei ridona la vita ai suoi pazienti. Non sisente un po' onnipotente?
Non provo un senso di onnipotenza, ma di soddisfazione sì.
Quando il fegato viene prelevato e lavato, è pallido, senza vita. Quando viene trapiantato, ed inizia ad essere irrorato dal sangue del paziente, e mi dico“ce la farà”, in quel momento ho la netta sensazione che si sia verificato un passaggio fra il donatore e il ricevente. Penso allora che il donatore non ha donato per niente; e il mio primo pensiero va sempre a lui, nella prima fase del trapianto. Quando l'organo riprende vita, mi concentro di più sul ricevente, ma provo sempre gratitudine verso chi ha donato.
Quanto della vita privata ha dovuto sacrificare alla sua professione?
Questo mestiere mi ha dato e mi dà grandi soddisfazioni, ma ha richiesto anche tutto il mio impegno. Nel periodo in cui lavoravo a Bruxelles ,vi si era trasferita anche la mia famiglia, e i figli andavano a scuola là. In Francia vivevo da solo in ospedale e ritornavo a casa solo ogni 15 giorni. Soprattutto all'inizio della mia attività non ho potuto dedicare molto tempo alla mia famiglia. Non ho mai fatto ferie vere e proprie, mi sono sempre assentato solo per congressi internazionali, ma anche da questi, qualche volta, mi è capitato di dover tornare precipitosamente 'alla base', perchè il lavoro lo richiedeva. Ricordo in particolare un congresso a Sölden, in Tirolo,dove già pregustavo di fare delle belle escursioni nelle Alpi Austriache...Venni chiamato urgentemente per un trapianto, e raggiunsi Torino con una corsa notturna in auto da Sölden in meno di 5 ore. Ricordo anche un rientro avventuroso da Siviglia con un aereo di fortuna trovato con vari interscambi per essere a Torino il mattino dopo...Questo, ovviamente, lasciando i miei sia a Sölden che a Siviglia.
Peccatoper Solden, si sa quanto lei ami le escursioni in montagna.
Infatti dopo qualche anno ci tornai, fortunatamente. Quelle Alpi sono bellissime!
Si sente di dover ringraziare qualche persona che si sia rivelata preziosa, nel suo percorso umano e professionale?
Si, e non è un ringraziamento di comodo: in primo luogo sento di dover ringraziare tutti i donatori: penso a loro e alle loro famiglie con rispetto e affetto. Nello specifico, invece, so di dovere riconoscenza a tutto il mio personale infermieristico Si tratta di infermieri che mi seguono dal 10 ottobre del 1990, che non si sono mai tirati indietro di fronte a nulla, seguendo orari impossibili e permettendoci di raggiungere i risultati di cui le parlavo. Natualmente, poi, ho undebito di gratitudine verso tutti coloro che mi hanno insegnato il mestiere, dai maestri torinesi ai colleghi belgi e vietnamiti.
Quali sono, a suo parere, le qualità imprescindibili di un bravo medico?
Il rigore, il disinteresse. Questo non significa non aver diritto ad una giusta retribuzione; significa non essere vincolati all'aspetto economico nel proporre l'atto medico. Non si deve mai pensare al proprio torncaconto: un atto medico lo si fa perchè lo si deve fare. Lealtre considerazioni sono secondarie.
Noto che ha sempre usato il termine di 'mestiere', anziché di 'professione'. Questo fa pensare a un certo understatement tutto sabaudo; e in particolare alle belle pagine che Fruttero e Lucentini e Primo Levi dedicarono all'importanza dei 'ferri del mestiere'; alla devozione e alla soddisfazione per il lavoro ben fatto. Quali sono le caratteristiche comunemente attribuite ai torinesi in cui lei si riconosce?
Ah, vengo anche preso in giro per questo. Benchè io sia originario di Ivrea, mi ritengo un torinese vecchio stampo ad ogni effetto, e della torinesità, se così si può dire, ho sempre fatto un principio. Un esempio? Quando la situazione si fa difficile, e mi viene voglia di mollare, riecheggia in me il famoso comando lanciato dal Conte di San Sebastiano ai suoi nella battaglia dell'Assietta: “Noi autri i bôgiomanen!”: in realtà un atto eroico, che decretò la vittoria dei Piemontesi sulle truppe francesi nel 1747. Ecco, il mio è lo stile bôgianen:nel senso di restare fermo nella mia volontà di lavoro, e di farlo andare a buon fine.
Sarà anche per questo che mi era stato assegnato il premio Bôgianen con Paolo Conte e Luciana Littizzetto!
Mi pare che le si adatti anche, per il suo stile, anche “esagerôma nen”...
Questo è il corollario del “bôgioma nen”- sorride il professore-: nel senso che, alla fine di tutto, si deve essere consapevoli di aver fatto soltanto il proprio dovere. Non esageriamo.
Non è niente di più.
Marina Rota